Avete mai
amato un albero?
Se avete mai amato una foresta o un albero,
saprete sicuramente che esistono alberi che nonostante siano marciti
completamente, ingannano tutti e vivono per raccontare e insegnare i
loro grandi ritorni alla vita.
La mia famiglia ha sempre rispettato
un'antica tradizione contadina che distingueva gli alberi per il
legname dagli alberi del bosco.
Gli alberi giganti della Natura erano
considerati diversi... Gli alberi della foresta non dovevano essere
abbattuti, perché i grandi alberi erano i veri custodi spirituali
del villaggio.
Gli alberi custodi riparavano il villaggio
dalla canicola estiva.
Interrompevano la corsa del vento durante i
temporali.
Trattenevano le raffiche di neve nei solchi
della loro corteccia per evitare che la neve seppellisse le piccole
fattorie e mettesse e repentaglio la vita.
I vecchi alberi davano una serena e calma
felicità del cuore a tutti coloro che li vedevano o che vi si
appoggiavano contro.
E dunque, i vecchi alberi, come gli anziani
del villaggio, non erano mai abbattuti né abbandonati al loro
destino.
Ma erano altri tempi. E quello era un momento
in cui qualcuno dimentica che la Natura non è un'estranea, ma una
persona di famiglia.
L'albero della grande madre: il riposo sotto
la sua ombra; la luce delle stelle che filtra attraverso i suoi rami
della notte; un'anima su cui potersi appoggiare; un conforto donato
dall'ineguagliabile serenità del rumore del vento nelle sue foglie
melodiose. Un luogo dove gli innamorati potevano attardarsi, un
tronco su cui appoggiarsi e piangere, una cupola di rami e foglie
sotto la quale le anime gemelle potevano parlare in pace.
Le piante non sono seminate. Sono evocazione.
Risorgono dalla scintilla d'oro.
La donna è come un grande albero che grazie
alle sue capacità di muoversi invece di rimanere immobile, può
sopravvivere alle tempeste e ai pericoli più terribili, e rimanere
ancora in piedi; e ritrovare ancora il suo modi di ondeggiare nel
vento, di continuare la danza.
Tratto da "La danza delle grandi madri" C.P.Estes
Sin dall'antichità l'albero era considerato l'origine
dell'uomo, ossia sorgente di vita.
Gli alchimisti chiamavano "utero" la
spaccatura o la cavità del tronco.
La chioma è il nume della pianta.
La quercia che rappresenta il mondo degli
elementi e si trova in un giardino celeste, dove il Sole e la Luna
sono circondati come se fossero due fiori.
La quercia alata di Ferecide che era
rivestita di un mantello col cappuccio come una donna. La veste è un
attributo di Artemide.
La quercia rappresenta il numen femminile.
La quercia è l'albero di Giove ma è anche
sacro a Giunone.
In senso traslato, in quanto elemento
femminile, la quercia è portatrice della proiezione dell'Anima...è
la coniunx o donna amata.
Le ninfe, le diadri ecc.. sono, in senso
mitologico, numina della natura o degli alberi.
Tratto da "Mysterium Coniunctionis" di C.G.Jung
Preso dal web
Favola d'amore di Hermann Hesse
Appena giunto in paradiso Pictor si trovò
dinnanzi ad un albero che era insieme uomo e donna. Pictor salutò
l'albero con riverenza e chiese: "Sei tu l'albero della vita?". Ma
quando, invece dell'albero, volle rispondergli il serpente, egli si
voltò e andò oltre. Era tutt'occhi, ogni cosa gli piaceva
moltissimo. Sentiva chiaramente di trovarsi nella patria e alla
fonte della vita.
E di nuovo vide un albero, che era insieme sole e luna. Pictor
chiese:"Sei tu l'albero della vita?".
Il sole annuì e sorrise. Fiori meravigliosi lo guardavano, con una
moltitudine di colori e luminosi sorrisi, con una moltitudine di
occhi e di visi. Alcuni annuivano e ridevano, altri annuivano e non
sorridevano: ebbri tacevano, in se stessi si perdevano, nel loro
profumo si fondevano. Un fiore cantò la canzone del lillà, un fiore
cantò la profonda ninna nanna azzurra. Uno dei fiori aveva grandi
occhi blu, un altro gli ricordava il primo amore. Uno aveva il
profumo del giardino dell'infanzia, il suo dolce profumo risuonava
come la voce della mamma. Un altro, ridendo, allungò verso di lui la
sua rossa lingua curva. Egli vi leccò, aveva un sapore forte e
selvaggio, come la resina e di miele, ma anche come di bacio di
donna.
Tra tutti questi fiori stava Pictor, pieno di struggimento e di
gioia inquieta. Il suo cuore, quasi fosse una campana, batteva
forte, batteva tanto; il suo desiderio ardeva verso l'ignoto, verso
il magicamente prefigurato.
Pictor scorse un uccello sull'erba posato e di luminosi colori
ammantato, di tutti i colori il bell'uccello sembrava dotato. Al
bell'uccello variopinto egli chiese:"Uccello, dove è dunque la
felicità?"
"La felicità?" disse il bell'uccello e rise con il suo becco dorato,
"la felicità, amico, è ovunque, sui monti e nelle valli, nei fiori e
nei cristalli".
Con queste parole l'uccello spensierato scosse le sue piume, allungò
il collo, agitò la coda, socchiuse gli occhi, rise un'ultima volta e
poi rimase seduto immobile, seduto fermo sull'erba, ed ecco: l'
uccello era diventato un fiore variopinto, le piume si erano
trasforma in foglie, le unghie in radici. Nella gloria dei colori,
nella danza e negli splendori, l'uccello si era fatta pianta. Pictor
vide questo con meraviglia.
E subito il fiore-uccello cominciò a muovere le sue foglie e i suoi
pistilli, già era stanco del suo essere fiore, già non aveva più
radici, scuotendosi un po' si innalzò lentamente e fu una splendida
farfalla, che si cullò nell'aria, senza peso, tutta di luce soffusa,
splendente nel viso. Pictor spalancò gli occhi dalla meraviglia.
Ma la nuova farfalla, l'allegra variopinta farfalla-fiore-uccello,
il luminoso volto colorato volò intorno a Pictor stupefatto, luccicò
al sole, scese a terra lieve come un fiocco di neve, si sedette
vicino ai piedi di Pictor, respirò dolcemente, tremò un poco con le
ali splendenti, ed ecco, si trasformò in un cristallo colorato, da
cui si irraggiava una luce rossa. Stupendamente brillava tra erba e
piante, come rintocco di campana festante, la rossa pietra preziosa.
Ma la sua patria, la profondità della terra, sembrava chiamarla;
subito incominciò a rimpicciolirsi e minacciò di scomparire.
Allora Pictor, spinto da un anelito incontenibile, si protese verso
la pietra che stava svanendo e la tirò a sé.
Estasiato, immerse lo sguardo nella sua luce magica, che sembrava
irraggiarli, nel cuore il presentimento di una piena beatitudine.
All'improvviso, strisciando sul ramo di un albero disseccato, il
serpente gli sibilò nell'orecchio: "la pietra ti trasforma in quello
che vuoi. Presto, dille il tuo desiderio, prima che sia troppo
tardi!".
Pictor si spaventò e temette di vedere svanire la sua fortuna.
Rapido disse la parola e si trasformò in un albero. Giacché più di
una volta aveva desiderato essere albero, perchè gli alberi gli
apparivano così pieni di pace, di forza e di dignità.
Pictor divenne albero. Penetrò con le radici nella terra, si allungò
verso l'alto, foglie e rami germogliarono dalle sue membra. Era
molto contento. Con fibre assetate succhiò nelle fresche profondità
della terra e con le sue foglie sventolò alto nell'azzurro. Insetti
abitavano nella sua scorza, ai suoi piedi abitavano il porcospino e
il coniglio, tra i suoi rami gli uccelli.
L'albero Pictor era felice e non contava gli anni che passavano.
Passarono molti anni prima che si accorgesse che la sua felicità non
era perfetta. Solo lentamente imparò a guardare con occhi d'albero.
Finalmente poté vedere, e divenne triste.
Vide infatti che intorno a lui nel paradiso gran parte degli esseri
si trasformava assai spesso, che tutto anzi correva in un flusso
incantato di perenni trasformazioni. Vide fiori diventare pietre
preziose o volarsene via come folgoranti colibrì. Vide accanto a sé
più di un albero scomparire all'improvviso: uno si era sciolto in
fonte, un altro era diventato coccodrillo, un altro ancora nuotava
fresco e contento, con grande godimento, come pesce allegro
guizzando, nuovi giochi in nuove forme inventando. Elefanti
prendevano la veste di rocce, giraffe la forma di fiori.
Lui invece, l'albero Pictor, rimaneva sempre lo stesso, non poteva
più trasformarsi. dal momento in cui capì questo, la sua felicità se
ne svanì: cominciò ad invecchiare e assunse sempre più quell'aspetto
stanco, serio afflitto, che si può osservare in molti vecchi alberi.
Lo si può vedere anche tutti i giorni nei cavalli, negli uccelli,
negli uomini e in tutti gli essere: quando non possiedono il dono
della trasformazione, col tempo sprofondano nella tristezza e
nell'abbattimento, e perdono ogni bellezza.
Un bel giorno, una fanciulla dai capelli biondi e dalla veste
azzurra si perse in quella parte del paradiso. Cantando e ballando
la bionda fanciulla correva tra gli alberi e prima di allora non
aveva mai pensato di desiderare il dono della trasformazione. Più di
una scimmia sapiente sorrise al suo passaggio, più di un cespuglio
l'accarezzò lieve con le sue propaggini, più di un albero fece
cadere al suo passaggio un fiore, una noce, una mela, senza che lei
vi badasse.
Quando l'albero Pictor scorse la fanciulla, lo prese un grande
struggimento, un desiderio di felicità come non gli e ancora mai
accaduto. E allo stesso tempo si trovò preso in una profonda
meditazione, perchè era come se il suo stesso sangue gli gridasse:
"Ritorna in te! Ricordati in questa ora tutta la tua vita, trovane
il senso, altrimenti sarà troppo tardi e non ti sarà più data alcuna
felicità". Ed egli ubbidì.
Rammemorò la sua origine, i suoi anni di uomo, il suo cammino verso
il paradiso, e in modo particolare quell'istante prima che si
facesse albero, quell'istante meraviglioso in cui aveva avuto in
mano quella pietra fatata. Allora, quando ogni trasformazione gli
era aperta, la vita in lui era stata ardente come non mai! Si
ricordò dell'uccello che allora aveva riso e dell'albero con la luna
e il sole; lo prese il sospetto che allora avesse perso, avesse
dimenticato qualcosa, e che il consiglio del serpente non era stato
buono.
La fanciulla udì
un fruscio tra le foglie dell'albero Pictor, alzò lo sguardo e
sentì, con un improvviso dolore al cuore, nuovi pensieri, nuovi
desideri, nuovi sogni muoversi dentro di lei. Attratta dalla forza
sconosciuta si sedette sotto l'albero. Esso le appariva solitario,
solitario e triste, e in questo bello, commovente e nobile nella sua
muta tristezza; era incantata dalla canzone che sussurrava lieve la
sua chioma. Si appoggiò al suo tronco ruvido, sentì l'albero
rabbrividire profondamente, sentì lo stesso brivido nel proprio
cuore. Il suo cuore era stranamente dolente, nel cielo della sua
anima scorrevano nuvole, dai suoi occhi cadevano pesanti lacrime.
Cosa stava succedendo? Perché doveva soffrire così? Perché il suo
cuore voleva spaccare il petto e andare a fondersi con lui, con
esso, con il bel solitario? L'albero tremò silenzioso fin nelle
radici, tanto intensamente raccoglieva in sé ogni forza vitale,
proteso verso la fanciulla, in un ardente desiderio di unione.
Ohimè, perché si era fatto raggirare dal serpente per essere
confinato così, per sempre, solo in un albero! Oh, come era stato
cieco, come era stato stolto! Davvero allora sapeva così poco,
davvero era stato così lontano dal senso della vita? No, anche
allora aveva sentito e presagito, ohimè! E con dolore e profonda
comprensione pensò ora all'albero che era fatto uomo e donna!
Venne volando un uccello, rosso e verde era l'uccello, ardito e
bello, mentre descriveva nel cielo un anello. La fanciulla lo vide
volare, vide cadere dal suo becco qualcosa che brillò rosso come
sangue, rosso come brace, e cadde tra le verdi piante, il richiamo
squillante della sua rossa luce era tanto intenso, che la fanciulla
si chinò e sollevò quel rossore. Ed ecco che era un cristallo, un
rubino, ed intorno ad esso non vi può essere oscurità.
Non appena la fanciulla ebbe preso la pietra fatata nella sua mano
bianca, immediatamente si avverò il sogno che le aveva riempito il
cuore. La bella fu presa, svanì e divenne tutt'uno con l'albero, si
affacciò dal suo tronco come un robusto giovane ramo che rapido si
innalzò verso di lui.
Ora tutto era a posto, il mondo era in ordine, solo ora era stato
trovato il paradiso, Pictor non era più un vecchio albero
intristito, ora cantava forte Pictoria. Vittoria. Era trasformato. E
poiché questa volta aveva raggiunto la vera trasformazione, perché
da una metà era diventato un tutto, da quell'istante poté continuare
a trasformarsi, tanto quanto voleva. Incessantemente il flusso
fatato del divenire scorreva nelle sue vene, perennemente
partecipava della creazione risorgente ad ogni ora.
Divenne capriolo, divenne pesce, divenne uomo e serpente, nuvola e
uccello. In ogni forma però era intero, era una "coppia", aveva in
sé luna e sole, uomo e donna, scorreva come fiume gemello per terre
stava come stella doppia in cielo.
Hermann Hesse
|